Non vediamo il mondo per come veramente è. Vediamo il mondo per come siamo noi.
C’è un’affermazione semplice, ma potentemente trasformativa, che chi pratica coaching dovrebbe tenere sempre viva come una bussola:
“La mappa non è il territorio.”
Così scriveva il filosofo e ingegnere Alfred Korzybski nel 1933, anticipando di decenni una delle intuizioni centrali del coaching trasformazionale: la realtà non è mai oggettiva, è sempre percepita, costruita, interpretata.
Per celebrare la Giornata Internazionale del Colore, vogliamo partire proprio da qui per esplorare, con sguardo curioso e apprezzativo, quanto ogni persona “colori” il mondo in modo unico.
Tu lo chiami verde. Io lo vedo marrone. Eppure stiamo guardando la stessa cosa.
Per chi ha una forma di daltonismo, il mondo è fatto comunque di colori. Solo che i nomi, le sfumature e i contrasti cambiano.
Chi ha una forma di visione alterata dei colori non “sbaglia” a vedere: semplicemente vede diversamente. Eppure, per chi vive quell’esperienza, quel mondo di colori è reale, concreto, sensoriale.
Il daltonismo (dal nome del chimico John Dalton) è una condizione genetica in cui la percezione dei colori è alterata. Non significa “vedere in bianco e nero” — come molti credono — ma percepire diversamente i colori, le intensità e le distinzioni tra alcune tonalità.
Le forme più comuni sono:
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Deuteranopia (assenza di coni verdi):
Chi ne è affetto ha difficoltà a distinguere il verde dal rosso. Il verde può apparire beige o grigiastro, il rosso più spento. -
Protanopia (assenza di coni rossi):
Anche qui rosso e verde si confondono, ma i rossi appaiono molto scuri, a volte quasi neri. -
Tritanopia (assenza di coni blu):
Meno comune. Le persone con questa condizione faticano a distinguere il blu dal verde e il giallo dal rosa. -
Daltonismo parziale (anomalie come deuteranomalia o protanomalia):
I colori sono percepiti, ma in modo attenuato o alterato.
Ecco perché un campo fiorito, un semaforo o un tramonto non hanno lo stesso significato visivo per tuttə. Eppure sono altrettanto reali, validi e coerenti con la mappa di chi li guarda.
Questo ci offre una straordinaria lezione di coaching.
È una questione neurologica, certo. Ma è anche una metafora perfetta per raccontare come ogni coachee porti nel processo di coaching un proprio mondo fatto di emozioni, bias, esperienze e codifiche soggettive.
Il nostro sistema nervoso autonomo, attivo ben prima della nostra razionalità, filtra continuamente ciò che vediamo, sentiamo, viviamo.
Allo stesso modo, le preferenze cognitive (come quelle indagate nei metaprogrammi o nei tipi psicologici di Jung) fanno da lente interpretativa:
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Chi preferisce vedere le “possibilità” coglie dettagli diversi da chi cerca “certezze”.
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Chi tende all’analisi logica percepisce uno scenario completamente differente rispetto a chi si affida alla risonanza emotiva.
Se nel coaching c’è una trappola silenziosa, è proprio questa: dare per scontato di aver capito l’altro, solo perché parliamo della stessa cosa.
Ma ogni conversazione ha due mondi in gioco: il nostro e quello dell’interlocutore.
E il nostro compito, come coach, è entrare nel mondo dell’altrə senza alterarlo, senza giudicarlo, senza “correggerlo”.
Come ci insegna Sharon Ting nel CCL Handbook of Coaching, l’ascolto profondo richiede cuore, occhi, orecchie… e soprattutto l’umiltà di non sapere.
Ogni persona si muove nella realtà attraverso una struttura profonda fatta di convinzioni, valori, identità e senso.
Il coaching non è una guida turistica che ti porta in un luogo “giusto”, ma una esplorazione guidata nella mappa interiore, per scoprire sentieri nuovi, riconoscere strade interrotte, immaginare confini più ampi.
Come coach, il nostro strumento più potente è la domanda.
Non per sapere, ma per illuminare i colori nascosti nella percezione dell’altrə.
Riflessione finale
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Quante volte ho sovrapposto il mio significato a quello dell’altro?
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Qual è la mia abitudine interpretativa più automatica?
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Cosa cambia nella mia presenza come coach quando tolgo me dalla narrazione dell’altrə?
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di Flaminia Fazi