Quando le persone comuni fanno del male

di Flaminia Fazi

Perché le persone comuni a volte fanno del male?

Crudeltà, obbedienza e la silenziosa forza degli ambienti quotidiani.

Partiamo da una verità difficile da accettare: la crudeltà non si presenta sempre con gli stivali militari o sventolando bandiere. Non urla sempre slogan, né impugna armi. A volte ha l’aspetto di un sopracciglio alzato; di una riunione che si chiude senza di te: di una battuta che gira, ma solo quando non ci sei.

A volte la crudeltà sussurra, e a volte resta semplicemente in silenzio.

Spesso immaginiamo il male come qualcosa di rumoroso e drammatico: la tortura, la persecuzione, il genocidio. La storia ci mostra fino a che punto può spingersi l’essere umano, ma quello che non sempre vediamo è che le stesse forze psicologiche che portano le persone a giustificare la tortura o a eseguire ordini disumani, esistono in forme più sottili anche nei nostri luoghi di lavoro, nelle scuole, nella società.

Ed è proprio questo che la psicologia sociale ci ripete da decenni.

All’inizio degli anni ‘60, lo psicologo Stanley Milgram condusse un esperimento diventato tristemente famoso. A dei volontari veniva chiesto di partecipare a uno “studio sull’apprendimento”. Il loro compito era semplice: ogni volta che un “allievo” commetteva un errore, dovevano somministrargli una scossa elettrica, e con ogni errore, l’intensità aumentava.

Quello che i partecipanti non sapevano era che l’allievo era un attore. Nessuna scossa era reale, ma le urla, le suppliche, i colpi contro il muro sembravano autentiche.

Il risultato? Una maggioranza dei volontari ha continuato fino alla fine. Non perché fossero crudeli, ma perché una figura autorevole glielo aveva ordinato.

“Ho visto un uomo maturo e inizialmente sicuro di sé entrare nel laboratorio sorridente. Dopo 20 minuti, era ridotto a un relitto tremante e balbettante.”
— Milgram, 1963

La prigione che non era reale, ma lo è diventata

Qualche anno dopo, Philip Zimbardo costruì una finta prigione nei sotterranei dell’Università di Stanford, per un esperimento: alcuni studenti furono assegnati come “guardie”, altri come “prigionieri”.

Quel che accadde fu sconcertante: nel giro di pochi giorni, le guardie divennero sempre più autoritarie e crudeli, e i prigionieri si chiusero in sé, mostrando segni di stress e sottomissione. Nonostante Zimbardo avesse previsto di far durare l’esperimento per due settimane, fu interrotto dopo sei giorni: non era che quelle guardie fossero sadiche, era che il ruolo e l’ambiente le avevano trasformate.

In che modo questo ci riguarda?

Non serve una prigione: basta un ufficio dove si ha paura di parlare.
Una classe dove chi è “diverso” viene deriso.
Una società in cui un politico punta il dito contro un gruppo che “non è come noi”.

La crudeltà non ha bisogno di mostri: ha bisogno solo di condizioni favorevoli.

Esploriamo insieme i semi da cui nasce la crudeltà.

La disumanizzazione

Quando smettiamo di vedere qualcuno come un essere umano, conseguentemente proviamo meno empatia per la sua sofferenza.

La psicologa Susan Fiske ha dimostrato che quando osserviamo immagini di senzatetto, o tossicodipendenti, il cervello a volte non attiva le aree associate all’empatia: come se non stessimo vedendo una persona, ma un oggetto.

Il disimpegno morale

Lo psicologo Albert Bandura ha spiegato come le persone giustificano le proprie azioni dannose per poter convivere con esse:

  • “Stavo solo facendo il mio dovere.”
  • “Se l’è cercata.”
  • “Non è affar mio.”
  • “È il regolamento.”

Queste giustificazioni non sono solo scuse: sono strategie psicologiche per ridurre il senso di colpa.

Addestrati a fare del male

Non serve un campo militare per essere addestrati alla crudeltà: può succedere anche in azienda.

La psicologa Mika Haritos-Fatouros, studiando la Grecia sotto la dittatura, ha documentato come i torturatori venivano gradualmente desensibilizzati: prima verbalmente, poi fisicamente, così che passo dopo passo la sofferenza altrui diventava routine.

Lo stesso accade in ambienti di lavoro tossici, dove un capo attacca un collega, e gli altri imparano presto che restare in silenzio è più sicuro.

“Noi contro loro”

Il bisogno di appartenere a un gruppo è umano, ma diventa pericoloso quando quel gruppo definisce chi merita rispetto e chi no.

Ervin Staub, che ha studiato i meccanismi psicologici dietro i genocidi, ha dimostrato che l’esclusione e la disumanizzazione iniziano ben prima della violenza fisica: cominciano con il linguaggio, con le etichette, con il silenzio.

Il silenzio è il peggior complice.

Generalmente tendiamo a concentrarci sull’aggressore, ma come ci insegna Staub, spesso veri responsabili sono anche quelli che guardano senza intervenire.

Perché si resta zitti? Paura; insicurezza; non voler essere i “rompiscatole”. Eppure il silenzio parla, e dice: “quello che sta succedendo va bene.”

Cosa Possiamo Fare?

Ecco la parte che dà speranza: se le condizioni possono generare crudeltà, possono anche generare compassione.

Possiamo:

  • costruire ambienti dove si premia il coraggio, non la complicità.
  • Riconoscere il linguaggio che disumanizza.
  • Intervenire quando qualcuno viene isolato o deriso.
  • Allenare l’empatia come una forma di resistenza civile.

Come hanno scritto Haslam e Reicher, molti partecipanti all’esperimento di Milgram non erano ciechi: credevano di servire una causa. Il problema non è l’obbedienza, piuttosto è a cosa si obbedisce.

La crudeltà non si annuncia con tamburi: a volte arriva con una mail ignorata, uno sguardo sprezzante, una battuta che ferisce.

Ma anche la compassione è silenziosa: un gesto gentile, una parola detta al momento giusto, una voce che si alza quando tutti tacciono. Non è sempre facile, ma è sempre possibile.

Se l’ambiente può trasformare le persone in complici, allora possiamo anche costruire ambienti che le trasformino in alleati gentili.

Tutti gli articoli

Conoscersi per aumentare la propria efficacia

di Flaminia Fazi

Il cambiamento che nasce dall’interno Nella complessità del mondo contemporaneo, migliorare la propria efficacia personale non significa più semplicemente “fare di più”.Significa imparare a pensare, scegliere e agire con maggiore consapevolezza. Ogni giorno ci confrontiamo con richieste multiple, ritmi veloci e aspettative elevate.Eppure, anche con…

leggi di più