Ci sono esperienze che ci restano addosso: parole non dette, sguardi che scorrono altrove, incontri dove sentiamo di non “incidere”, conversazioni dove il nostro contributo non viene raccolto.
Sono episodi che si sedimentano in silenzio, non esplodono ma lentamente indeboliscono la motivazione, incrinano la fiducia, e spesso chi li causa, nemmeno se ne accorge.
E se fosse proprio questo il punto?
Sappiamo bene che l’autoconsapevolezza è il primo passo per ogni trasformazione, eppure, quando si parla di inclusione relazionale, anche i più preparati possono inciampare, perché esiste un lato cieco dell’inconscio relazionale: le micro-esclusioni.
Mary Rowe, professoressa al MIT, le definisce “micro-inequità”: piccoli segnali – un tono meno caloroso, un’interruzione non necessaria, un feedback mancato – che trasmettono svalutazione, e che, reiterati, generano una vera e propria esclusione.
Non sono frutto di malizia: sono il prodotto di schemi impliciti, bias cognitivi, convinzioni non esplorate. Ogni sistema tende a replicare le sue dinamiche nascoste e noi, che ne facciamo parte, possiamo diventare inconsapevolmente vettori di esclusione.
Nel coaching, questo è particolarmente delicato; perché se la nostra presenza non è neutra ma selettiva, se risuona solo con chi ha uno stile simile al nostro, perdiamo l’essenza stessa della professione: essere specchio e spazio sicuro per la piena espressione dell’altro.
Ma io sono un coach… non dovrei essere immune?
È un pensiero di molti, ma prendendo in prestito un ammonimento di Brené Brown, “il privilegio più insidioso è quello che non vediamo.” Nel nostro ruolo – e forse proprio lì – rischiamo di cullarci nell’illusione dell’imparzialità.
Pensiamo a questi scenari:
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in una sessione, magari di team coaching, offriamo più spazio e incoraggiamento a chi comunica in modo “assertivo”, trascurando chi riflette più lentamente;
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in un’aula, diamo per scontato che una persona “non sia pronta” a esprimersi davanti al gruppo, senza nemmeno chiederlo;
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in una conversazione, ci sintonizziamo solo con chi ha uno stile simile al nostro: brillante, “business-oriented”, emotivamente controllato.
Eppure uno dei compiti del coach è quello di essere un esempio, creando contesti inclusivi in cui ognuno possa dare il meglio di sé. Per farlo, allora serve andare oltre le buone intenzioni e allenare la percezione così come diventare consapevoli delle nostre categorie interne che ci fanno attribuire senso alla realtà, e trasformarle a servizio dei messaggi chiave su cui si fonda il coaching.
Come si riconosce una micro-esclusione?
La risposta è: raramente sul momento, ma gli effetti si colgono nel tempo. Alcuni esempi:
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Una persona comincia a non intervenire più in gruppo.
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In una sessione, il tono dell’altro si modifica dopo un nostro commento.
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Un feedback che abbiamo dato genera una distanza difficile da colmare.
Nel suo Positive Psychology Coaching, Robert Biswas-Diener ci ricorda che la psicologia positiva non è solo celebrare ciò che funziona, ma dare voce anche a ciò che manca. E spesso, ciò che manca è lo sguardo su chi mettiamo inconsapevolemente ai margini.
Allenarsi a vedere (e cambiare) i micro-messaggi
Ecco tre pratiche che puoi integrare nel tuo percorso di crescita professionale:
1. Il diario invisibile
Dopo ogni interazione significativa, poniti queste domande:
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Chi ho valorizzato di più, e perché?
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Chi è rimastə in silenzio, e come ho reagito?
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A chi ho rivolto meno attenzione, anche se avrei potuto?
Questa pratica, ispirata al “self-assessment riflessivo” di Stephen Covey ne L’ottava abitudine, ti aiuta a portare alla luce il non detto.
2. Simulazioni osservate
In contesti formativi o di peer-coaching, inscena conversazioni e chiedi a unə osservatorə esternə di rilevare segnali inclusivi o esclusivi (sguardi, pause, tono). L’effetto è dirompente: ciò che “non si vede” durante l’azione emerge con chiarezza nello specchio altrui.
3. Micro-journaling delle omissioni
Ogni giorno, annota un momento in cui non hai dato spazio a qualcunə: scrivi cosa hai pensato, cosa hai sentito, e quale idea hai avuto prima di passare oltre. E’ una tecnica molto utile per scoprire dove si nasconde un bias.

















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di U2COACH